sabato 30 ottobre 2010

Il valore dell'attesa

A volte, quando ci succede qualcosa di bello, si dice: ne è valsa la pena aspettare tanto per avere questo.
Mi trovo, ancora una volta, ad aspettare un donatore. Aspettarlo con trepidazione e anche impazienza, perché se non arriva in fretta si profilano altre terapie antipatiche per "prolungare" l'attesa...
E mi ritrovo a pensare che non solo ne vale la pena, di aspettare: è proprio l'attesa a dare un valore grande alle cose più belle.
Tutti quegli anni di studio, e alla fine la laurea: che soddisfazione! E poi prepararti, osservare, imparare, aspettare... e a un certo punto ritrovarti, da sola, con il tuo paziente, e farcela. Sapendo che ce l'hai fatta perché c'è stato tutto quel "prima", perché non hai improvvisato.
Ore e ore a fare esercizietti sulla chitarra, sentendoti stupida e incapace a ripetere sempre gli stessi tre accordi, e dopo qualche anno suoni con gli amici, e si canta insieme...
Aspettare la visita di un amico, di un'amica, preparare qualcosa per merenda per lui/lei, e godersi ogni minuto in cui si sta insieme a chiaccherare...
L'attesa più bella che vedo intorno a me: i primi esami, il pancione che cresce, e vedere che per quanto sentano calci e provino a immaginare come sarà questo bimbo in arrivo, nessuno dei nuovi genitori è davvero "pronto", nessuno può fermare lo stupore davanti a questa cosa che non è solo un "bimbo", è una persona, altro da te...

Quando ero piccola andavo in Sardegna dai parenti in nave. Ricordo il lungo viaggio in macchina fino a Genova (mio papà per anni non ha voluto fare l'autostrada...), la sera in nave che non finiva mai, svegliarsi al mattino ancora in nave, salire in macchina... e sbarcare in un altro mondo.
Ora in Sardegna ci vado in aereo. Adoro volare, è veloce e comodo. Ma mi manca un po' quella sensazione di "passaggio", quella transizione gustata e attesa, quella soddisfazione del viaggio che veniva proprio dal fatto che era lungo, e di notte.

Siamo ormai vicini all'Avvento, e penso al valore che ha anche quell'attesa del Natale. L'attesa di un fatto già avvenuto: Dio è diventato uomo. Una cosa così pazzesca che non ci pensiamo neanche e ci sembra normale, scontata. O così inverosimile da non essere presa in considerazione.
E spero che la mia piccola attesa di ora mi aiuti a vivere anche l'attesa dell'Avvento, e tutti i pensieri che verranno, e che scriverò poi...
Per ora, aspetto. Sapendo che ogni giorno di attesa dà più valore al dono che riceverò.

martedì 26 ottobre 2010

Nel Tuo amore siamo un popolo

Questo l'ho fatto io tempo fa... mi sembra bello condividerlo con voi nel mese in cui cerchiamo di sensibilizzarci alla Missione, al fatto di essere davvero, tutti, un unico popolo...

domenica 24 ottobre 2010

Perle fantasy

Piccole perle si possono trovare dappertutto... anche nei libri fantasy! ^___^

..."Gli Dei amano gli uomini e le donne che possiedono una grande anima proprio come un'artista ama un pezzo di marmo di qualità... Il punto fondamentale non è la virtù, bensì la volontà, che è cesello e scalpello nel contempo. Qualcuno ti ha mai citato il classico sermone di Ordol, quello delle coppe?"
"Quello in cui il Sacerdote versa l'acqua su tutto? L'ho sentito per la prima volta quando avevo dieci anni e mi è parso divertente il punto in cui il Sacerdote si bagna le scarpe... ma del resto ero un bambino. Tempo che il Sacerdote del nostro Tempio fosse piuttosto noioso."
"Ascolta me, adesso, e vedrai che non ti annoierai", gatantì Umegat, rovesciando la propria coppa sulla tovaglia. "La volontà degli uomini è libera, e gli Dei non possono invaderla, non più di quanto io possa versare del vino in questa coppa attraverso il suo fondo."
"No, non sprecare il vino!" protestò Cazaril, vedendo Umegat protentere la mano verso la brocca. "E' una dimostrazione a cui ho già assistito."
Sorridendo, Umegat ritrasse la mano dalla brocca. " Ma hai mai capito davvero quanto gli Dei siano impotenti, se anche il più infimo schiavo li può escludere dal proprio cuore?" domandò. "E, se vengono esclusi dal cuore, rimangono esclusi anche dal mondo, perché non possono arrivarvi se non tramite le anime dei viventi. Se gli Dei potessero farsi trasportare da chiunque andasse loro a genio, gli uomini sarebbero semplici marionette, invece ottengono un piccolo canale tramite il quale agire soltanto se e quando una creatura dotata di volontà propria mette se stessa e la propria volontà a loro disposizione, spontaneamente." Raddrizzo la coppa e prese la caraffa. "D'altro canto, capita che un uomo si apra agli Dei e permetta loro di riversarsi in lui e, per suo tramite, nel mondo. Un santo non è un'anima virtuosa, bensì un'anima vuota, giacché l'uomo - o la donna - in questione sceglie liberamente di donare la propria volontà al suo Dio e, nel rinunciare ad agire, rende possibile l'azione da parte della divinità." Umegat riempì la sua coppa...

(L.McMaster Bujold, L'ombra della maledizione, ed. TEA - tra l'altro è un gran bel libro fantasy, se vi piace il genere!)

giovedì 21 ottobre 2010

Dolore evitabile

Oggi sono arrabbiata. In alcuni momenti sono stata furiosa.
Day hospital, sono in un letto con flebo attaccata, nessuno sa chi sono e che lavoro faccio. Vengono a far sdraiare un paziente che ha appena eseguito un esame doloroso, per lui molto doloroso: è pallido, sta in piedi a fatica. Iniziano a commentare l'esame appena fatto e quanto faccia male con la vicina di posto, ragazza di 18 anni che ha fatto lo stesso esame una settimana fa.
Io ascolto, sto zitta e la rabbia cresce.
Perché, come medico, mi rendo conto che ci sono tantissime difficoltà organizzative e poche risorse, i medici fanno quello che possono con quello che hanno, e in fondo è un esame che dura pochi minuti... ma FA MALE e SI POTREBBE FARE SENZA SENTIRE NIENTE. Basterebbe farlo in sedazione. Io lo so bene: sono un'anestesista, è il mio lavoro.
Ma gli anestesisti sono tutti davvero stracarichi di lavoro; se trovi l'anestesista disponibile per un paio di ore la settimana, devi fornirgli anche farmaci e attrezzature (e sono costi e difficoltà organizzative); se fai una sedazione poi devi tenere i pazienti a letto in osservazione per qualche ora, e i letti dove sono?
In più nella maggior parte dei casi è "sufficiente" fare un po' di benzodiazepine endovena: il paziente si tranquillizza e spesso dopo non ricorda più di tanto il dolore. Io apprezzo la buona volontà dei medici che fanno almeno questo ai loro pazienti (e il loro coraggio, perché le benzodiazepine possono dare in alcuni casi difficoltà respiratorie... per fortuna basta avere l'antagonista a portata di mano). Apprezzo la loro buona volontà, ma so benissimo (e forse alcuni non lo sanno), che le benzodiazepine ti stordiscono e ti danno amnesia, ma NON tolgono il dolore. Il fatto che uno spesso dopo non lo ricordi non implica che non l'abbia sentito, e il dolore non ha effetti solo a livello cosciente (ci andrebbe un ripassino di fisiologia ma qui non è il caso).
L'altra cosa che spesso si prende in considerazione in casi come questi (ma non solo, penso per esempio alla riduzione delle fratture) è che "in fondo si fa in fretta, è questione di qualche minuto... Basta sopportare un po'..." (Voi paghereste un dentista che vi devitalizza o toglie un dente con un'anestesia insufficiente o nulla perché "tanto è questione di qualche minuto"???)
Così, nell'Anno del Signore 2010, nel Sistema Sanitario Nazionale Italiano che è e rimane, nonostante tutto, uno dei migliori al mondo, quando si devono fare esami dolorosi, o ridurre fratture, o... spesso il paziente è costretto a subire il dolore, convinto oltretutto che non ci sia alternativa.
Che nessuno in questo momento venga a farmi discorsi del tipo "in Italia non si usano abbastanza analgesici per una questione culturale, perché la Chiesa Cattolica dice che la sofferenza ha valore salvifico bla bla bla...". In questo momento potrebbe ricevere dalla sottoscritta quantomeno una legnata. Balle. Lo dico da anestesista e da cattolica. Il dolore spesso non si tratta per ignoranza e problemi organizzativi e di risorse. Tutto qui.
Grrrr....

martedì 19 ottobre 2010

U2 - Walk On (Lyrics On Screen)




Una tra le canzoni più importanti della mia vita...

...e l'amore
non è cosa facile,
l'unico bagaglio
che puoi portare
L'amore non è la cosa più facile
l'unico bagaglio che puoi portare
È tutto quello che non riesci a lasciarti alle spalle

E se il buio è fatto per tenerci lontani
E se il giorno sembra lontano a venire
E se il tuo fragile cuore dovesse rompersi
E per un secondo tu guardassi indietro
Oh no,sii forte

Vai avanti
Vai avanti
Quello che hai, non lo possono rubare
No, non possono neanche sentire

Vai avanti
Vai avanti
Resta al sicuro stanotte

Stai facendo la valigia per andare in un posto
dove nessuno di noi è mai stato
Un posto che ha bisogno di essere creduto
per essere visto

Avresti potuto andare via
un canarino in una gabbia aperta
che volerà solo
solo per la libertà

Vai avanti
Vai avanti
Quello che hai
Non puoi negarlo
Non puoi venderlo né comprarlo

Vai avanti
Vai avanti
Stai al sicuro stanotte

E lo so che fa male
Quando il tuo cuore si spezza
E tu puoi solo farcela
Vai avanti
Vai avanti

Casa
Difficile dire cosa sia
Se non né hai mai avuta una

Casa
Non so dire dove sia
Ma so che ci sto andando

Casa
Ecco dove è il dolore

E lo so che fa male
E il tuo cuore si spezza
E tu puoi solo farcela
Vai avanti

Lascialo dietro di te
Devi lasciartelo alle spalle

Tutto ciò che hai creato
Tutto ciò che hai fatto
Tutto ciò che hai costruito
Tutto ciò che hai rotto

Tutto quello che hai affrontato
Tutto quello che hai provato
Tutto questo puoi lasciartelo alle spalle

Tutto ciò che hai razionalizzato
Tutto ciò di cui ti sei preso cura
Tutto ciò di cui ti sei reso conto
Tutto quello che hai progettato
Tutto quello che hai indossato
E tutto quello che hai visto

Tutto quello che hai creato
Tutto ciò che hai rovinato
Tutto quello che odi...

La debolezza

Iniziamo subito da cose "potenti"...
Oggi, al colloquio con la psicologa che segue i pazienti dell'ematologia, rivedevamo questi due anni e mezzo, questo percorso che è tanto faticoso ma che mi sta dando tanto.
(È anche lei che mi ha spronato a scrivere e raccontare queste cose... ^___^)
Cercavamo di fare un quadro di come vivo la mia vita di malata di linfoma in attesa di trapianto ora, in questo momento.

Nella mia malattia, ovviamente, ci sono state diverse fasi. Mi ricordo la prima parte, i cicli di ABVD e la radioterapia (dopo la quale se tutto fosse andato bene sarei dovuta essere guarita) come un periodo di abbandono assoluto alla volontà di Dio, e insieme la serena consapevolezza di non essere sola in questo cammino, e la certezza concreta che quella era una parentesi nella mia vita: mi avrebbe insegnato tanto e lasciato magari qualche cicatrice, ma era una parentesi, una fase che poi avrei dovuto portare nel mio "vero" quotidiano. Rileggo questo in tanti particolari: il fatto di avere scelto un accesso venoso a lungo termine (l'Hohn) che si potesse rimuovere appena finite le terapie, il giorno stesso dell'ultima chemio; o il mio desiderio struggente di tornare a lavoro; e, una volta rientrata, il desiderio di tornare ad essere di nuovo quella di prima, una fra tanti, e in grado di fare quello che facevano tutti i miei colleghi, dai trasporti alle notti alle cose più faticose.
Ricordo quei mesi come un volo veloce. Ricordo giorni pesanti in cui magari non riuscivo ad alzarmi dal letto, ma comunque ero sempre serena, e spinta da una forza cosi incredibile che non mi è mai sembrata mia. Io sono convinta che fosse la forza che ricevevo da Dio in risposta a tutte le tantissime preghiere delle tantissime persone che da allora mi hanno ricordato e mi ricordano... Mi sono sentita proprio "portata in braccio", e non ricordo assolutamente quel periodo come un peso.

Poi, un anno fa, la scoperta della recidiva. Quella, sì, arrivava come una mazzata, forse più della prima diagnosi. Stavo riprendendo pienamente la mia attività lavorativa, stavo ricevendo gratificazioni anche in altri campi; era ottobre e iniziavano i vari impegni e progetti in oratorio, parrocchia e così via... Stop.
E per la prima volta ho avuto paura. Non tanto della morte: sapevo che era più probabile di prima, ma che ancora c'erano tante cure da provare prima di arrendersi. No, recidiva voleva dire cure più pesanti, un nuovo accesso centrale, un autotrapianto di midollo e forse un trapianto, ricoveri, isolamento... e se tutto fosse andato bene, comunque più limitazioni, problemi lavorativi, addio a un'eventuale "carriera" o anche solo alla parte del mio lavoro che più amo, quella più "movimentata"...
Ho scoperto pian piano che alcune mie paure erano addirittura prudenti, ma molte altre esagerate. Però ci è voluto del tempo. Mesi di "stordimento" da un ricovero all'altro, con le cure che mi rendevano sempre più debole. E io che in pratica vivevo di rendita sulla forza e la grazia che avevo accumulato prima. Ma qualcosa era cambiato.

Il cambiamento più importante è stato il mio modo di vedere me stessa. Ho iniziato a pensare a me come MALATA: e malata comprende dei limiti, ma non vuol dire solo questo. È un modo diverso di impostare la vita, i progetti. Un modo diverso di vedere il mondo e i suoi valori. Con dei rischi anche grandi, come ad esempio chiudersi in sé stessi; ma d'altra parte una buona occasione per scoprire che IO sono importante, e degna di essere voluta bene. Se sono davvero convinta di questo cambiano tante cose. Per esempio, accettare l'aiuto degli altri non è più l'umiliazione di veder sottolineati i propri limiti, ma è semplicemente riconoscere che l'altra persona cerca di aiutarti perché ti vuole bene e basta. Se hai bisogno, chiedi. Mi ci sono voluti due anni per arrivarci...

Tramonto vicino ad Alghero, ottobre 2010

Dopo una fase in cui mi sono concentrata soprattutto su me stessa e sul mio presente, ora, alle porte del trapianto da donatore, si apre una fase un po' diversa. È di questo che mi sono soffermata a parlare con la psicologa in questi giorni. Un periodo in cui sto riflettendo sulla sofferenza, e sulla fede, in particolare sulla mia fede.
In questo mi stanno aiutando dei libri, alcuni incontrati per caso. Uno è "Muta il mio dolore in danza", di Henry Nowen (grazie agli zii che me l'hanno regalato!). Lo sto ancora leggendo e ne trascriverò sicuramente altri brani in questo blog, ma intanto condivido con voi il brano dell'introduzione che mi ha colpito e fatto riflettere:

"Molti di noi sono tentati di pensare che, quando si soffre, l'unica cosa che conta sia essere sollevati dalla sofferenza. Vogliamo eluderla ad ogni costo. Ma se impariamo a muoverci nella sofferenza, anziché rimuoverla, l'accoglieremo diversamente. Saremo disposti a lasciare che ci insegni qualcosa. Cominceremo persino a capire che Dio può usarla per qualche fine più vasto."

Era una cosa a cui stavo pensando già da un po', avendo letto uno stralcio della Salvifici Doloris che dice che il cristiano non solo vive la sua vocazione anche nella sofferenza, ma è chiamato a fare della sofferenza la sua vocazione.

Un altro libro, che ho letto proprio stamattina, è "Caterina" di Antonio Socci. Non proprio nel mio stile preferito, però è una storia commovente e grande, che fa vedere cosa può essere la forza di una comunità, e che parla tanto di preghiera. Mi ha fatto pensare, perché io so che tanti pregano per me, ma faccio fatica a pregare per me stessa e soprattutto per la mia guarigione. Un po', forse, per orgoglio. Ma soprattutto, credo, perché, per quanto io creda ai miracoli, mi sembra che il più grande miracolo di Dio sia proprio aver creato un mondo con leggi tanto perfette che ogni cosa funziona benissimo da sola dal suo inizio al suo compimento, senza interventi esterni. Non è meraviglioso? Per me è davvero un miracolo che il sole sorga la mattina, spinto da leggi inerziali e gravitazionali che non riesco neanche a immaginare, e questo per dare al mondo calore, e magari un tramonto mozzafiato. È un piccolo miracolo usare alcuni farmaci e vedere che funzionano proprio come dovrebbero funzionare, e con certezza, non in base a probabilità. Io amo questo mondo, e un miracolo fatto a me sarebbe una contraddizione di quello che amo. Una guarigione con le cure va bene, ma un miracolo... La mia preghiera a Dio è sempre stata che mi aiuti ad accettare e a fare quello che Lui vuole. Una preghiera che prima di questi mesi avevo sempre paura di fare, perché se fai una preghiera sincera devi essere capace di accettarne le conseguenze fino in fondo.
E ora invece, un po' per tutte queste riflessioni, un po' sull'onda del terzo libro di questi giorni, "La sindone di Gesù Nazareno" (non mi ricordo l'autrice e non ce l'ho sottomano, ed. Il Mulino credo), la mia preghiera sta cambiando, ed è diventata quella di Gesù nel Getsemani; Padre, se puoi allontana da me tutto questo. Ma sia fatta la Tua volontà, non la mia.
La psicologa ha fatto una lettura molto umana e molto bella di questa mia affermazione. Ha detto che in quel "Sia fatta la Tua volontà" probabilmente c'è proprio l'atteggiamento con cui vivo questo periodo di chemioterapie pesanti: questa accettazione del momento presente con tutto quello che mi può dare. Per vivere in profondità questo momento della mia vita, senza che scivoli via senza senso, per danzare questa strana "danza" che però mi sta dando tanto.


Ultima riflessione della giornata: fino a poco tempo fa storcevo il naso di fronte all'espressione "abbracciare la Croce", mi sembrava retaggio di un'epoca medievalista e ormai da lasciarci alle spalle: la nostra fede non è forse nella gioia della Resurrezione? Ora però inizio a capire il valore e la ricchezza della sofferenza, e sono arrivata persino a ringraziare di aver potuto intraprendere questo viaggio. Il dolore fisico, che impedisce persino di pensare, è una cosa che continuo a combattere, anche come medico e anestesista (anche se inizio un pochino a capire i "mistici" che lo accettano e perché...). Ma c'è un tipo di sofferenza che è necessaria nel mondo, perché senza di lei non capiremmo tante cose, non si offrirebbero tante cose, e il mondo sarebbe molto più povero. Un dolore che va abbracciato, un dolore che salva. Un dolore che è "partecipare alle sofferenze di Cristo". Ma è una cosa che inizio a capire solo ora, non c'ero arrivata neanche dopo la prima fase di chemio, quando mi sembrava di aver capito tutto. Ora, dipendente da mia mamma, dalle trasfusioni, dalla generosità di un donatore... ora che ho bisogno di tutto, inizio a capire il valore di quello che sto vivendo.

"Per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: "Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza."
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angoscie sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte".
(2 Cor 12,7-10)

Primo post

Questo è il mio secondo blog.
Il mio primo blog http://mylimph.blogspot.com/, molto "specifico", è nato con un obiettivo ben preciso: spiegare a chi scopre di avere un linfoma che cosa si troverà ad affrontare, senza toni tragici né troppo scientifici, raccontando anche la mia esperienza di medico E di paziente. Sono convinta che sia un bel progetto, mi ha già dato alcune piccole soddisfazioni anche se l'hanno letto proprio in pochi.
Però mi mancava qualcosa... un blog "vero" se vogliamo, un blog dove si mettono tutti i pensieri e le immagini e le cose che scopriamo e impariamo nella nostra vita, che ci sembra importante condividere perché altrimenti andrebbero perse.
Non l'ho mai fatto innanzitutto perché il tempo è quello che è, e seguire bene un blog richiede un po' di tempo (lo sa bene il povero Mylimph, che non vede un post per mesi e poi se ne vede caricare due o tre in un colpo solo... ^___^). Ma poi mi frenava un po' la consapevolezza che nel voler "rendere pubblica" una parte di me c'è anche il mio narcisismo, il fatto che mi fa piacere ricevere complimenti, e d'altra parte ci resto terribilmente male di fronte alle critiche, anche se – spero – ho imparato ad accettarle e usarle per migliorare (ovviamente quando sono critiche intelligenti; altrimenti fanno soffrire e basta). Scrivere qualcosa, dal tema delle elementari alla tesi a un pezzo di teatro a una canzone, e poi farlo leggere ad altri significa, in un modo o nell'altro, sottoporsi a un esame.
Alla fine però mi sono decisa. Un po' perché ho la presunzione, dopo tanti incontri e tanti "feedback" ricevuti quando racconto le mie esperienze, di avere qualcosa da raccontare, o un'opinione furba sulle cose che vedo... almeno ogni tanto! Un po' perché incontro, vedo e sento tante, tante cose belle o che mi fanno pensare, e vorrei condividerle almeno con le persone amiche perché anche loro gioiscano e pensino con me (non "come" me per forza... ma insieme). E un po', credo, anche per me stessa. Una mia cara amica ha intitolato il suo blog "Scrivere rende il pensiero pensabile": è vero, mi aiuta a capire il mio stesso pensiero per poterlo trasmettere a voi.
Quindi ecco qui il mio blog: assolutamente parziale, piccolo e senza pretese, con post lunghi lunghi perché il mio pensiero a volte è un po' contorto, ma il blog dice un po' di quello che sono, e spero rimanga sempre e soprattutto sincero.