martedì 19 ottobre 2010

La debolezza

Iniziamo subito da cose "potenti"...
Oggi, al colloquio con la psicologa che segue i pazienti dell'ematologia, rivedevamo questi due anni e mezzo, questo percorso che è tanto faticoso ma che mi sta dando tanto.
(È anche lei che mi ha spronato a scrivere e raccontare queste cose... ^___^)
Cercavamo di fare un quadro di come vivo la mia vita di malata di linfoma in attesa di trapianto ora, in questo momento.

Nella mia malattia, ovviamente, ci sono state diverse fasi. Mi ricordo la prima parte, i cicli di ABVD e la radioterapia (dopo la quale se tutto fosse andato bene sarei dovuta essere guarita) come un periodo di abbandono assoluto alla volontà di Dio, e insieme la serena consapevolezza di non essere sola in questo cammino, e la certezza concreta che quella era una parentesi nella mia vita: mi avrebbe insegnato tanto e lasciato magari qualche cicatrice, ma era una parentesi, una fase che poi avrei dovuto portare nel mio "vero" quotidiano. Rileggo questo in tanti particolari: il fatto di avere scelto un accesso venoso a lungo termine (l'Hohn) che si potesse rimuovere appena finite le terapie, il giorno stesso dell'ultima chemio; o il mio desiderio struggente di tornare a lavoro; e, una volta rientrata, il desiderio di tornare ad essere di nuovo quella di prima, una fra tanti, e in grado di fare quello che facevano tutti i miei colleghi, dai trasporti alle notti alle cose più faticose.
Ricordo quei mesi come un volo veloce. Ricordo giorni pesanti in cui magari non riuscivo ad alzarmi dal letto, ma comunque ero sempre serena, e spinta da una forza cosi incredibile che non mi è mai sembrata mia. Io sono convinta che fosse la forza che ricevevo da Dio in risposta a tutte le tantissime preghiere delle tantissime persone che da allora mi hanno ricordato e mi ricordano... Mi sono sentita proprio "portata in braccio", e non ricordo assolutamente quel periodo come un peso.

Poi, un anno fa, la scoperta della recidiva. Quella, sì, arrivava come una mazzata, forse più della prima diagnosi. Stavo riprendendo pienamente la mia attività lavorativa, stavo ricevendo gratificazioni anche in altri campi; era ottobre e iniziavano i vari impegni e progetti in oratorio, parrocchia e così via... Stop.
E per la prima volta ho avuto paura. Non tanto della morte: sapevo che era più probabile di prima, ma che ancora c'erano tante cure da provare prima di arrendersi. No, recidiva voleva dire cure più pesanti, un nuovo accesso centrale, un autotrapianto di midollo e forse un trapianto, ricoveri, isolamento... e se tutto fosse andato bene, comunque più limitazioni, problemi lavorativi, addio a un'eventuale "carriera" o anche solo alla parte del mio lavoro che più amo, quella più "movimentata"...
Ho scoperto pian piano che alcune mie paure erano addirittura prudenti, ma molte altre esagerate. Però ci è voluto del tempo. Mesi di "stordimento" da un ricovero all'altro, con le cure che mi rendevano sempre più debole. E io che in pratica vivevo di rendita sulla forza e la grazia che avevo accumulato prima. Ma qualcosa era cambiato.

Il cambiamento più importante è stato il mio modo di vedere me stessa. Ho iniziato a pensare a me come MALATA: e malata comprende dei limiti, ma non vuol dire solo questo. È un modo diverso di impostare la vita, i progetti. Un modo diverso di vedere il mondo e i suoi valori. Con dei rischi anche grandi, come ad esempio chiudersi in sé stessi; ma d'altra parte una buona occasione per scoprire che IO sono importante, e degna di essere voluta bene. Se sono davvero convinta di questo cambiano tante cose. Per esempio, accettare l'aiuto degli altri non è più l'umiliazione di veder sottolineati i propri limiti, ma è semplicemente riconoscere che l'altra persona cerca di aiutarti perché ti vuole bene e basta. Se hai bisogno, chiedi. Mi ci sono voluti due anni per arrivarci...

Tramonto vicino ad Alghero, ottobre 2010

Dopo una fase in cui mi sono concentrata soprattutto su me stessa e sul mio presente, ora, alle porte del trapianto da donatore, si apre una fase un po' diversa. È di questo che mi sono soffermata a parlare con la psicologa in questi giorni. Un periodo in cui sto riflettendo sulla sofferenza, e sulla fede, in particolare sulla mia fede.
In questo mi stanno aiutando dei libri, alcuni incontrati per caso. Uno è "Muta il mio dolore in danza", di Henry Nowen (grazie agli zii che me l'hanno regalato!). Lo sto ancora leggendo e ne trascriverò sicuramente altri brani in questo blog, ma intanto condivido con voi il brano dell'introduzione che mi ha colpito e fatto riflettere:

"Molti di noi sono tentati di pensare che, quando si soffre, l'unica cosa che conta sia essere sollevati dalla sofferenza. Vogliamo eluderla ad ogni costo. Ma se impariamo a muoverci nella sofferenza, anziché rimuoverla, l'accoglieremo diversamente. Saremo disposti a lasciare che ci insegni qualcosa. Cominceremo persino a capire che Dio può usarla per qualche fine più vasto."

Era una cosa a cui stavo pensando già da un po', avendo letto uno stralcio della Salvifici Doloris che dice che il cristiano non solo vive la sua vocazione anche nella sofferenza, ma è chiamato a fare della sofferenza la sua vocazione.

Un altro libro, che ho letto proprio stamattina, è "Caterina" di Antonio Socci. Non proprio nel mio stile preferito, però è una storia commovente e grande, che fa vedere cosa può essere la forza di una comunità, e che parla tanto di preghiera. Mi ha fatto pensare, perché io so che tanti pregano per me, ma faccio fatica a pregare per me stessa e soprattutto per la mia guarigione. Un po', forse, per orgoglio. Ma soprattutto, credo, perché, per quanto io creda ai miracoli, mi sembra che il più grande miracolo di Dio sia proprio aver creato un mondo con leggi tanto perfette che ogni cosa funziona benissimo da sola dal suo inizio al suo compimento, senza interventi esterni. Non è meraviglioso? Per me è davvero un miracolo che il sole sorga la mattina, spinto da leggi inerziali e gravitazionali che non riesco neanche a immaginare, e questo per dare al mondo calore, e magari un tramonto mozzafiato. È un piccolo miracolo usare alcuni farmaci e vedere che funzionano proprio come dovrebbero funzionare, e con certezza, non in base a probabilità. Io amo questo mondo, e un miracolo fatto a me sarebbe una contraddizione di quello che amo. Una guarigione con le cure va bene, ma un miracolo... La mia preghiera a Dio è sempre stata che mi aiuti ad accettare e a fare quello che Lui vuole. Una preghiera che prima di questi mesi avevo sempre paura di fare, perché se fai una preghiera sincera devi essere capace di accettarne le conseguenze fino in fondo.
E ora invece, un po' per tutte queste riflessioni, un po' sull'onda del terzo libro di questi giorni, "La sindone di Gesù Nazareno" (non mi ricordo l'autrice e non ce l'ho sottomano, ed. Il Mulino credo), la mia preghiera sta cambiando, ed è diventata quella di Gesù nel Getsemani; Padre, se puoi allontana da me tutto questo. Ma sia fatta la Tua volontà, non la mia.
La psicologa ha fatto una lettura molto umana e molto bella di questa mia affermazione. Ha detto che in quel "Sia fatta la Tua volontà" probabilmente c'è proprio l'atteggiamento con cui vivo questo periodo di chemioterapie pesanti: questa accettazione del momento presente con tutto quello che mi può dare. Per vivere in profondità questo momento della mia vita, senza che scivoli via senza senso, per danzare questa strana "danza" che però mi sta dando tanto.


Ultima riflessione della giornata: fino a poco tempo fa storcevo il naso di fronte all'espressione "abbracciare la Croce", mi sembrava retaggio di un'epoca medievalista e ormai da lasciarci alle spalle: la nostra fede non è forse nella gioia della Resurrezione? Ora però inizio a capire il valore e la ricchezza della sofferenza, e sono arrivata persino a ringraziare di aver potuto intraprendere questo viaggio. Il dolore fisico, che impedisce persino di pensare, è una cosa che continuo a combattere, anche come medico e anestesista (anche se inizio un pochino a capire i "mistici" che lo accettano e perché...). Ma c'è un tipo di sofferenza che è necessaria nel mondo, perché senza di lei non capiremmo tante cose, non si offrirebbero tante cose, e il mondo sarebbe molto più povero. Un dolore che va abbracciato, un dolore che salva. Un dolore che è "partecipare alle sofferenze di Cristo". Ma è una cosa che inizio a capire solo ora, non c'ero arrivata neanche dopo la prima fase di chemio, quando mi sembrava di aver capito tutto. Ora, dipendente da mia mamma, dalle trasfusioni, dalla generosità di un donatore... ora che ho bisogno di tutto, inizio a capire il valore di quello che sto vivendo.

"Per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: "Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza."
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angoscie sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte".
(2 Cor 12,7-10)

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